Basta tavoli! L’ecosistema scozzese e un progetto irricevibile

cooperare . valore condiviso

@Editormanque

Non succede spesso, ma ogni tanto sostituire un collega al meeting di un progetto europeo può essere interessante. Mi è successo recentemente in occasione di un incontro a Glasgow dove si approfondiva il tema delle infrastrutture a supporto dell’impresa sociale. Un quadro di esperienze molto variegato dal quale è possibile trarre alcune utili lezioni per il caso italiano. Ad esempio, in molti paesi europei la Pubblica Amministrazione gioca un ruolo forte (e ambivalente) non solo come acquirente di beni e servizi (nelle vesti della famigerata “stazione appaltante”), ma anche per sostenere l’imprenditoria sociale grazie a progettualità mirate. In Italia invece il supporto è in gran parte autoprodotto dalle stesse imprese sociali, ad esempio attraverso le reti consortili o support structures similari.

Autodafé contro invadenza? La questione è mal posta se il supporto non si declina come ecosistema, cioè come insieme di risorse dedicate (economiche ed in kind) a questo specifico modello d’impresa. Un insieme volto a rispondere al fabbisogno di sviluppo delle imprese, ma soprattutto orientato a infrastrutturare un più ampio contesto socio economico attraverso la produzione di valore sociale condiviso da una pluralità di stakeholder.

Sì ma come si fa? Una possibile risposta è venuta proprio da Glasgow. Lo “Scottish approach” dimostra infatti che una buona agenda di politiche pubbliche può contribuire a costruire e rafforzare un ecosistema di impresa sociale. Il tutto in 3 passi.

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Primo passo: definire un approccio olistico rispetto alla programmazione e alle politiche che deriva dal riconoscimento del ruolo chiave svolto dall’impresa sociale non in alcune nicchie ma per lo sviluppo economico e per la qualità della vita del territorio nel suo complesso. Se questo elemento di centralità non è condiviso è molto difficile far emergere nuove risorse grazie a un coinvolgimento più efficace dei diversi attori.

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Secondo passo: migliorare l’efficacia agendo leve ben precise: la riforma dei servizi pubblici (senza la quale è impossibile liberare gran parte del potenziale di imprenditoria sociale); la ridefinizione dei livelli di sostenibilità (perché piaccia o non piaccia siamo in regime di contrazione delle risorse); un miglior coinvolgimento della comunità grazie a due modalità principali: 1) un più spiccato orientamento alla co-produzione; 2) la valorizzazione di risorse (asset) materiali e immateriali. Tutto questo orienta l’ecosistema (e non solo singoli attori) in un’ottica di valutazione dei risultati anche per quanto riguarda l’impatto su sistemi di regolazione che, in questo caso, consistono nell’accessibilità a servizi di interesse generale.

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Terzo passo: la governance, secondo un assetto volto non solo a definire l’architettura dell’ecosistema ma a monitorarne l’evoluzione e i mutamenti in corso d’opera. Forse è anche (e soprattutto) per quest’ultima ragione che non mi ha del tutto convinto (per usare un eufemismo) una proposta progettuale presentata in risposta a una call europea che chiedeva di “sperimentare nuove politiche sociali“. La bozza di progetto, infatti, ruotava intorno alla sperimentazione di “tavoli multistakeholder” per l’innovazione sociale. Un po’ poco – anche scontando i divari territoriali tra i paesi coinvolti – per dar vita a un vero e proprio ecosistema di impresa sociale come quello suggerito dal caso scozzese. La coprogettazione di sistemi complessi ha bisogno, oltre che di un luogo, anche di un metodo, altrimenti il suffisso “co” perde di significato associato a qualsiasi attività. E poi serve una visione che alimenti cambiamenti strutturali dagli effetti (anche “disruptive”) non sempre prevedibili.

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