E’ la finanza il driver dell’impresa sociale?

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@Editormanque

Il campo dell’imprenditoria sociale è in fase di profonda ristrutturazione negli ultimi tempi, anche in Italia. Se per decenni la partita si è giocata internamente al settore non profit con l’obiettivo di marcare la distinzione tra organizzazioni di carattere produttivo – le imprese sociali appunto – da quelle di advocacy, ora il confronto avviene su una scala ben più ampia e complessa. Sull’onda dell’innovazione sociale emergono infatti nuovi attori sia del business che, in misura minore, della pubblica amministrazione che dichiarano di agire in veste di imprese e imprenditori sociali.

L’epicentro di questa “grande trasformazione” riguardante modelli organizzativi, pratiche gestionali e soprattutto approcci e culture dell’imprenditoria sociale coincide con le forme di finanziamento. Da più parti, infatti, si riconosce che il salto di qualità in termini d’impatto – sociale, occupazionale, economico – dell’impresa sociale è possibile nella misura in cui vengono messe a disposizione risorse dedicate, sia di origine pubblica che privata, sia in forma di grant che di equity.

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Il quadro dell’offerta di finanza specializzata è già ricco di iniziative e di attori: i fondi rotativi istituti a norma di legge presso quasi tutte le regioni italiane, le donazioni sempre più mirate di soggetti grantmaking come le fondazioni di origine bancaria, i finanziamenti di Banca Etica, la banca costituita e posseduta dallo stesso terzo settore italiano, sperimentazioni di merchant bank come Cosis attiva fin da metà anni ‘90 con linee di finanziamento dedicate. Ma l’ecosistema di finanza sociale tende ad arricchirsi ulteriormente. Le principali banche commerciali italiane, ad esempio, hanno intrapreso, seppur con percorsi diversi, una strategia di specializzazione funzionale nei confronti dell’imprenditoria sociale che vede in Banca Prossima la sua realizzazione principale, in quanto si tratta di un istituto di credito del gruppo Banca Intesa che, come recita il pay off, opera “per le imprese sociali e le comunità”. Anche le banche locali, in massima parte cooperative, manifestano una crescente attenzione al settore, condividendone le finalità sociali e, più in generale, la dimensione comunitaria. Inoltre, seppur con un consistente ritardo, si assiste all’emergere di figure di venture capitalist (fondazione Oltreventure) e alla trasformazione di fondazioni d’impresa da donatori a finanziatori di imprese sociali (fondazione Vodafone).

Questo il quadro dell’offerta. Ma che succede sul versante della domanda? I dati a disposizione delineano un quadro interno che, nei suoi caratteri essenziali, sembra in grado di intercettare solo una parte delle risorse messe a disposizione. La maggioranza delle imprese sociali italiane ha finanziato, e continua ancora oggi a finanziare, il proprio sviluppo attraverso l’autofinanziamento dei soci e l’accumulo degli avanzi di gestione derivanti dalle varie attività di business. Si tratta dei classici strumenti che mettono a valore il carattere collettivo di imprese sociali che, nella gran parte dei casi, hanno assunto la forma giuridica cooperativa.

Questo modello è però destinato, nel breve periodo, a raggiungere “i limiti del proprio sviluppo”. Sul fronte dell’autofinanziamento molte imprese sociali hanno infatti intrapreso da tempo percorsi di capitalizzazione coinvolgendo i proprio soci grazie anche a iniziative sia pubbliche (fondo Jeremie Lombardia) che private che hanno incentivato questa forma di finanziamento. Guardando invece ai risultati di bilancio emerge molto chiaramente che gli avanzi di gestione si vanno progressivamente assottigliando a causa della crisi che ha imposto tagli consistenti ai budget pubblici ovvero al principale cliente di molte imprese sociali. Tutto questo a fronte di un crescente fabbisogno di risorse economiche non solo per far fronte a problemi di cash flow legati, ad esempio, ai crescenti ritardi di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione, ma anche per effettuare investimenti strutturali. Molte imprese sociali, infatti, vivono una fase di sviluppo che le induce, sia per necessità che per virtù, a modificare radicalmente il proprio modello di business. Da gestori per conto terzi (enti pubblici soprattutto) a proprietari di centri di servizio “chiavi in mano” che possono essere venduti a clienti diversi secondo modalità altrettanto differenziate. Tutto ciò avviene spesso attraverso processi di innovazione di prodotto e non solo del modello di servizio.

L’insieme di questi fattori porta già oggi una parte dell’imprenditoria sociale tradizionale a orientare le proprie strategie nell’ottica di intercettare risorse finanziarie secondo modelli nuovi e con stock più consistenti. Questo processo di riconversione è peraltro incentivato anche dagli stessi soggetti finanziatori che agiscono nei confronti del settore in modo non neutrale, ovvero proponendo prodotti e soluzioni che, di fatto, incorporano nuove forme e modelli di impresa sociale. Spingono, ad esempio, sulla crescita dimensionale delle imprese, sull’efficientamento interno, sull’espansione in nuovi settori di attività diversi da quelli tradizionali.

Fino a che punto l’imprenditoria sociale oggi prevalente – di orgine non profit e di stampo comunitario – sarà in grado e soprattutto avrà la consapevolezza di seguire l’evoluzione dell’offerta finanziaria? O quando si assisterà all’emergere di nuove forme di impresa sociale promosse dagli attori della finanza specializzata o addirittura frutto di una trasformazione di questi ultimi? La risposta a breve. Sarà infatti la congiuntura economica, unita a provvedimenti di policy come la Social Business Initiative, a definire una volta per tutte, il nuovo campo dell’imprenditoria sociale in Italia.

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