I miners in commissione banche e la fiducia ai tempi della blockchain
ibridazioni . valore condiviso
Mancavano solo loro (o quasi) nel lungo elenco di audizioni della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. I minatori delle criptovalute. Anche se probabilmente erano in tutt’altre faccende affaccendati, perché se qualche miner che chiude transazioni nella blockchain avesse buttato un occhio al live streaming della commissione probabilmente si sarebbe ancor più impegnato ad estrarre bitcoin, rinunciando quindi all’invito. Novelli Stachanov del digitale. A prima vista perché siamo nel pieno di quella euforia che precede il probabile scoppio della bolla, quando cioè non si vuol vedere quello che quasi tutti sanno. L’importante è massimizzare: il guadagno o, in senso più masochistico, la perdita, anche sull’onda dei rivolgimenti interni al sistema bancario tradizionale.
In realtà c’è dell’altro che emerge dai lavori della commissione. Solo che per renderlo evidente bisogna sgombrare la cortina fumogena di una retorica parlamentare dove il contraddittorio tipico di un’inchiesta viene sostituito da un confronto surreale. E così l’autointeresse viene sovrapposto a vaghe opzioni di valore e dati di realtà iper puntuali fanno da foglia di fico a un clamoroso deficit di pensiero sistemico.
Il tema, in estrema sintesi, è questo: tra riforma delle BCC e crack delle banche popolari il 2017 segna un punto di non ritorno di un modello di sviluppo locale autoregolato su base relazionale e fiduciaria. E da qui in avanti saranno altri meccanismi, anche se magari in via non esclusiva, a riconoscere le “curve di livello” che caratterizzano i fattori di contesto come elementi di valore situati. La causa non sta solo nella sostituzione esercitata da altri attori e relative tecnologie, ma anche dal fallimento dei modelli “naturali” di cooperazione bottom-up, ben rappresentati proprio dalla finanza “di territorio”, soprattutto nel momento in cui sono chiamati a scalare oltre la dimensione micro e settoriale. Insomma un fallimento proprio nel momento in cui produrre “valore condiviso” (con riferimento alle comunità) rappresenta il principale fattore di successo dell’economia.
Ma i miners che c’entrano in tutto questo? La blockchain, a ben vedere, è disruptive non solo rispetto alle “istituzioni centrali”, rappresentate, nel caso delle criptovalute, da banche centrali e agenzie finanziarie, ma spiazza anche i meccanismi di contrattazione e scambio che avvengono su base fiduciaria in contesti localizzati. Modalità che, come si è visto, appaiono indebolite, sia per la strutturale difficoltà a estendersi in chiave multi locale, sia per le opacità e le chiusure che inquinano questi modelli relazionali nel loro ambiente di riferimento. E non si tratta solo di moneta, ma di molte altre importanti questioni: le donazioni, l’autenticità dei prodotti, il contenuto dei contratti, perfino la dimensione di impatto sociale e l’identità delle persone come si ricordava in un articolo apparso su Nova pochi giorni fa.
Fine della storia quindi? Intesa come un paradigma e non solo come una realtà più o meno legata a singole esperienze? Forse sì, ma con un’opportunità di rilancio a patto di affrontare il tema chiave della governance. In senso stretto rispetto alla blockchain per la quale si stanno preparando soluzioni regolative che potranno svoltare sia in senso di apertura (mantenendolo come un sistema distribuito, connesso e auto-regolato) o di progressiva chiusura (diventando un service delle tecnocrazie burocratiche ed estrattive). L’esito di questo passaggio sarà cruciale per tutelare risparmiatori e consumatori, oltre che per reinventare politiche e istituzioni capaci di governare nuovi schemi di produzione del valore senza soggiacere al dualismo centralità / estrazione vs localismo / coesione che, come dimostrano le recenti vicende, genera fallimenti su entrambi i versanti.
Ma in senso più ampio la governance è centrale per la capacità di recuperare, anche contando sull’apporto di questa tecnologia, il suo carattere di processo che quindi si alimenta attraverso capacità dialogo e confronto e non solo attraverso di procedure che “blindano” le relazioni (e i relativi scambi). Se quindi la blockchain funzionerà come una tecnologia aperta sarà in grado di abilitare scambi mirati a più ampio raggio, generando così forme nuove di socialità che potranno alimentare una nuova base fiduciaria.
Lo ricorda anche un interessante rapporto Accenture sugli usi “sociali” della blockchain: eliminando il ruolo degli intermediari e delle terze parti per convalidare transazioni e processi e non richiedendo alle controparti di conoscersi o convalidarsi prima di effettuare transazioni o condividere informazioni, si genera un nuovo livello di trasparenza e fiducia che investe in prima battuta l’organizzazione che fa uso di questa tecnologia.
Questo si riflette, come ricordano gli autori del rapporto, in alcune capacità-chiave dell’organizzazione: allineare la missione all’operatività (focus), migliorare la capacità di previsione per sostanziare la strategia (forecast), prevedere forme di finanziamento capaci di incrementare e dare continuità al flusso di risorse (funds), moltiplicare i riscontri rispetto alle attività svolte (feedback). Ma non basta, perché ad essere investito da questa trasformazione è il più ampio ecosistema nel quale gli attori sociali operano. La fiducia intermediata dalla blockchain è un “densificatore” di ecosistemi sempre più vasti ed articolati assegnando così un maggior grado di libertà alle organizzazioni della social innovation nel procedere attraverso decisioni informate mentre perseguono la loro missione.
Il tutto con l’obiettivo di disegnare un sistema sociale alternativo non solo rispetto alle istituzioni che concentrano e massimizzano il valore, ma anche per allargare i confini, a volte asfittici, dello sviluppo locale.
Il #socialgood della blockchain è anche (e probabilmente soprattutto) questo.
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