Oltre al lavoro, rendiamo agili le organizzazioni
ibridazioni . imprenditorialità
Se serve un riscontro sul fatto che molte organizzazioni – imprese, pubbliche amministrazioni, nonprofit – non hanno ancora colto il carattere sistemico del mutamento socio-tecnico in atto, allora basta guardare al dibattito sul lavoro agile o “smart work”.
Da casi aziendali, giornate di sensibilizzazione, proposte di legge, emerge soprattutto uno smart work che riorganizza su basi relativamente nuove il lavoro in remoto, rendicontandone le ricadute (positive) a livello psicologico, economico, sociale e ambientale. Niente di clamoroso rispetto all’entità delle sfide in atto, ma è normale che sia così nella misura in cui si chiede al solo lavoro e non all’organizzazione nel suo complesso una maggiore agilità. In particolare non si riconosce (o non si vuole riconoscere) che l’elemento chiave, dove oggi si genera il valore, corrisponde a quel “buffer” sempre più esteso e denso di relazioni che si situa tra l’organizzazione e il suo più immediato contesto di riferimento.
Non l’apice strategico, né la linea di produzione e tantomeno i servizi a supporto che sono stati ridimensionati, spesso malamente, per comprimere i costi. E’ lo spazio tra i confini organizzativi e i contesti sociali ove l’organizzazione stessa opera a rappresentare l’epicentro per la coproduzione di beni e servizi il cui valore deve essere sempre più condiviso, pena la perdita di competitività ed efficacia presso portatori di interessi, bisogni e risorse sempre più proattivi, grazie anche a tecnologie che fanno leva su elementi di natura relazionale ed esperienziale. Adottare modelli lavoro adeguati ad operare all’interno di queste nuove catene di valore mette al centro dimensioni di imprenditività, creatività, autonomia e responsabilità. Meta competenze non codificate che le organizzazioni cercano di catturare ormai da decenni, ma senza mettere più di tanto in discussione se stesse, cioè i loro modelli gestionali e gli assetti di governance oltre che, al fondo, le loro culture organizzative.
Ha ragione quindi chi sostiene che prima degli organigrammi occorre cambiare la forma mentis, trasformando le organizzazioni da organismi il cui funzionamento è tutto regolato internamente a ecosistemi in grado di conformarsi a contesti mutevoli. Ecosystems are boundless, constantly able to grow, absorb new entities, adapt, react, and transform. They don’t acquire new elements by ingesting them, but by absorbing new components at the edges of the network. And when they do that, they create new value for the whole ecosystem.
Un passaggio epocale che rompe il paradigma organicista alla base delle istituzioni dominanti e apre a soluzioni ibride che superano le tendenze a concentrare, centralizzare, massimizzare. Opzioni sempre più precarie e sempre meno difendibili rispetto a forme di decentramento e dislocazione di varia natura che, come scriveva Moises Naim, segnano “la fine del potere”.
Quindi più che chiamare a raccolta schiere di manager folgorati sulla via dello smart work, meglio creare nuovi luoghi e schemi organizzativi dove sia davvero possibile fare lavoro agile e con esso nuova economia coesiva. Ciò vale anche per il nonprofit naturalmente, trattandosi di un settore ad elevata intensità di capitale umano (sia in termini quantitativi che motivazionali), ma che spesso opera attraverso modelli organizzativi dove il carattere smart o agile non sempre emerge come tratto costitutivo. Questa situazione è anche all’origine di problemi sul fronte della sostenibilità come dimostrano i dati sulle cooperative sociali riassunti nell’infografica. Cresce il numero di lavoratori e l’incidenza dei contratti a tempo indeterminato e quindi anche il costo del personale, ma a fronte di performance economiche che segnano la stabilità dei fatturati e l’erosione dei margini operativi.
La risposta, in questi casi, consiste in un “aumento della produttività” che per queste imprese significa soprattutto dislocare il personale non solo nei centri di servizio ma nelle comunità territoriali di riferimento, formandolo ad operare tra le linee di servizio e le dinamiche comunitarie dove i bisogni si combinano in azioni collettive capaci di mobilitare un ampio spettro di risorse. Se questo è lo smart work dell’imprenditoria sociale significa avviare percorsi di change management volti a revisionare ruoli professionali, modelli di organizzazione e di governance incentrati su “fattori di produzione” il più possibile internalizzati, dando più spazio a una domanda sociale che, sempre più spesso, spinge e può essere sollecitata ad agire in sede di co-produzione, -progettazione, -valutazione.
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