I luoghi ibridi della rigenerazione sociale
asset comunitari . ibridazioni
L’enfasi sulla rigenerazione di beni immobili e spazi pubblici per finalità sociali è tutt’altro che eccessiva o ingiustificata. E la ragione risiede non solo sul lato dell’offerta, cioè del numero di strutture potenzialmente disponibili per questi scopi e neanche guardando alla domanda di queste infrastrutture. Il motivo di tanta giustificata attenzione è legato ai fallimenti dei modelli dominanti di rigenerazione e quindi alla necessità di individuarne di nuovi capaci di ricombinare i classici fattori di efficacia (in termini di impatto sociale) e di sostenibilità (in termini di valore economico e occupazionale) dai quali peraltro scaturisce l’ibrido originario: l’impresa sociale.
La gran parte dei beni oggi disponibili, infatti, ha alle spalle fallimenti sia del mercato che dello Stato. Sono quello che “avanza” dopo aver tentato di rigenerarli attraverso l’iniziativa pubblica e/o dopo aver provato a valorizzarli attraverso il mercato (alienandoli o affittandoli). Un ammontare di asset tutt’altro che residuale, anzi sempre più consistente grazie (si fa per dire) alla crisi che si è originata e abbattuta, guarda caso, proprio sul settore immobiliare aumentandone esponenzialmente le “sofferenze”.
La tentazione di un terzo (e ultimo?) tentativo è forte: rigenerare questi immobili grazie a progettualità “sociali”, forti dei molteplici riscontri sull’impatto “positivo e rendicontabile” che queste iniziative variamente declinate (produzione culturale, welfare, tutela ambientale, ecc.) realizzano nelle catene di produzione del valore. Senza incorporare interventi di inclusione lavorativa, coesione sociale, educazione grazie a una relazionalità più consistente e intenzionale gli spazi rimangono tali e non riventano luoghi. E se non diventano luoghi saranno destinati a uno stato di abbandono che li trasformerà in veri e propri incubatori di esclusione e disagio, senza speranza di poter essere in qualche modo ricollocati, anche dal punto di vista economico.
La rigenerazione sociale è sostanzialmente un intervento di sense-making, perché, come ricordano Sakia Warren e Phil Johns nel loro libro su comunità ed economie creative “place is a space with a meaning […] is unique and different”. Il rischio però è di affrontare questa non indifferente sfida con un modello di azione inadeguato che si basa sulla redistribuzione di una quota di risorse per via filantropica a favore di soggetti nonprofit incaricati di operare come “developer” della rigenerazione sociale. Un modello che non intacca l’approccio dualistico che vede da una parte l’economia capitalistica impegnata a massimizzare il valore economico, agendo la sua missione sociale attraverso azioni di Corporate Social Responsability e dall’altra i soggetti non lucrativi impegnati a intercettare ed allocare queste risorse spesso incerte, marginali e discontinue. L’esatto opposto rispetto a progetti che, per realizzarsi, hanno bisogno di visioni ad ampio raggio, prospettive di lungo periodo e leve lunghe – anche in termini finanziari – su innovazioni di sistema. I risultati delle esperienze più avanzate che hanno fatto propria questa modalità di intervento (ad esempio gli immobili ferroviari) restituiscono un impatto solo parziale, dove si riconoscono certamente alcune buone pratiche, ma non una una vera e propria industry della rigenerazione sociale in grado di processare un patrimonio molto consistente e variamente distribuito.
Se quindi l’intento è di fare rigenerazione non solo spostando la sede di un’associazione all’interno di un immobile che residua dai progetti standard di riqualificazione, allora è necessario innescare circuiti di economia coesiva dove il sociale si fa produttivo, non tanto attraverso le classiche “economie proprie” (di nicchia), ma provando a “socializzare” le economie di luogo, rendendole più competitive e, al tempo stesso, aumentando l’impatto e la sostenibilità degli interventi sociali. Educare, includere, curare non solo in contesti “specializzati” e “separati”, ma dentro luoghi di vita è anche un’opportunità per rilegittimare un’azione sociale oggi in parte screditata per un eccesso di collateralismo politico e di deriva burocratica, rendendola in questo senso davvero “generativa”.
Gli asset comunitari come popolazione organizzativa e non solo come innovazione sperimentale scaturiscono da un processo, tutt’altro che semplice, di rivalorizzazione degli immobili. Il primo passaggio – doloroso – richiede di scontare, almeno in parte, la loro ipervalutazione. Ciò significa, per molti enti proprietari, iscrivere perdite a bilancio, ma al contempo rendere più accessibili i beni da parte degli attori più rilevanti della rigenerazione sociale. Il secondo passaggio riguarda la due diligence dell’asset in grado di dare informazioni non solo di natura strutturale, ma anche rispetto alla possibile attivazione di nuove forme di economia coesiva basate su meccanismi di autoproduzione e di abilitazione di economie diverse, in un gioco di ruolo tra impresa e agenzia da parte del soggetto gestore. E come terzo passaggio serve un’attenzione continuativa all’impatto sui sistemi di regolazione e di policy nella convinzione che oggi rigenerare significa non solo riferirsi alla produzione di benefici a favore di “gruppi target”, ma anche (e soprattutto) contribuire a cambiare le regole del gioco. Contribuire, in altri termini, a un’innovazione paradigmatica che affronta – e tenta di risolvere – temi chiave per la convivenza sociale e la qualità ambientale.
Commento per avviare un dialogo [paritetico] tra domanda e offerta: https://plus.google.com/u/0/+luigibertuzzi/posts/BZR2PTaGiL2
Il commento in realtà vorrebbe “contribuire” ad acquisire la consapevolezza di ciò che occorre per poter [anche solo pensare di] avviare un dialogo tra domanda ed offerta che non sia “penalizzante” [in termini di “conoscenza”] per la domanda.