Rigenerazione: per non finire come Pietro Micca

asset comunitari

@Editormanque

Non è poi così difficile capire a cosa serve l’innovazione sociale: quasi sempre fa da innesco a più ampi processi di cambiamento. Alimenta la transizione verso nuovi modelli di economia e società. L’innovazione culturale è il caso più emblematico, soprattutto quando si tratta di dare il via a progetti di rigenerazione di beni immobili come asset comunitari. Rigenerazione che ormai rappresenta la fenomenologia di innovazione sociale più vicina a diventare una vera “industry”, dopo una stagione – tutto sommato gloriosa – di buone e cattive pratiche pionieristiche. Non a caso soggetti pubblici e investitori privati sono sempre più orientati a rimettere in circolo beni immobili in cerca di nuove forme d’uso a elevato impatto sociale. Un po’ per liberarsi di un problema, un po’ (speriamo) per avviare catene del valore che facciano scaturire nuove economie dalle dinamiche sociali. Il meccanismo è ormai definito: “basta” (si fa per dire) far leva su una produzione culturale che accende la miccia della rigenerazione. In realtà le virgolette sono d’obbligo perché il percorso è complesso, ma è altrettanto vero che l’offerta è vasta, sempre più qualificata ed economicamente accessibile. Serve “solo” (ancora virgolette) capacità di scelta e di negoziazione.

L’innovazione sociale opera come tester grazie all’infusione di micro pratiche. Non a caso il carattere della temporaneità si affianca in modo quasi indissolubile dalla rigenerazione, però, di nuovo, incorporando visioni e modelli in grado di dar vita a mutamenti di più ampio respiro. Non è solo una “prova tecnica”, ma il tentativo di rigenerare ambiti più vasti.

E poi? Che succede oltre una fase caratterizzata soprattutto dalla sperimentalità? I rilievi, da questo punto di vista, sono meno evidenti. Fino a qualche tempo fa ci si poteva trincerare dietro il carattere emergente di queste iniziative, ma oggi sempre meno perché la casistica si arricchisce e matura. È quindi necessario mettere mano ai fondamenti della rigenerazione.

Significa, in altri termini, porre il tema della messa a regime del cambiamento, lavorando non solo sul design dei processi partecipativi, ma anche sulle forme istituzionali (modelli organizzativi e assetti di governance).

Significa che i nuovi modelli di servizio e di business oggetto di testaggio devono diventare centrali (veri e propri core-business) e quindi devono fertilizzarsi con le economie locali e con quelle esterne.

Significa attivare un consapevole rimescolamento delle competenze che, spesso in forma collettiva, assumono la leadership del processo.

(14-3) Pietro Micca

Senza tutto questo il rischio è che l’innovazione ideata e istruita rimanga ai margini o, peggio ancora, utilizzata come una sorta di paravento dietro il quale tutto o quasi procede come prima.
Il rischio che gli attori dell’innovazione facciano la fine del patriota Pietro Micca c’è. Che accendano cioè la miccia della rigenerazione, ma poi rimangano sepolti dall’esplosione di processi che essi stessi hanno attivato e che, per ragioni diverse, hanno consegnato ancora immaturi nelle mani degli attori locali, secondo la modalità ben conosciuta – tanto per rimanere in tema – del cerino che passa di mano in mano.
All’innesco deve quindi accompagnarsi l’innesto (o integrazione come la chiamano a next Rieti) delle comunità della rigenerazione nelle reti che sostengono i processi di sviluppo locale. Le comunità come mutuo riconoscimento da cui scaturiscono elementi identitari e di appartenenza. Le reti, invece, come funzione obiettivo che avvia un gioco cooperativo capace non solo di progettare e di sperimentare, ma di produrre “in via stabile e continuativa” nuove forme di valore.

Un percorso articolato rispetto al quale il patriota Pietro viene ancora in aiuto: di soprannome faceva “passpartout” e inoltre – se andasse male – era pur sempre un esperto di esplosivi.

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