#sbloccaitalia (e terzo settore) con gli asset comunitari
asset comunitari . valore condiviso
Il decreto “sblocca Italia” è sotto tiro da parte di organizzazioni ambientaliste, intellettuali, singoli cittadini. L’accusa è di deregolamentare i cantieri delle opere pubbliche rischiando di compromettere l’ambiente e il paesaggio, ovvero i due beni comuni su cui si fonda – o si dovrebbe fondare – la competitività del Paese. Ma non tutto il decreto è da buttare. Come ha giustamente osservato Cittadinanzattiva ci sono aspetti rilevanti, in particolare le misure che favoriscono il trasferimento di beni immobili a comunità di cittadini perché li rigenerino come asset comunitari che rispondono cioè a bisogni di interesse collettivo.
Un tema cruciale che si completa – nel più classico “combinato disposto” – con la riforma del terzo settore laddove si afferma che le organizzazioni non lucrative (imprese sociali in particolare) sono attori privilegiati per la rigenerazione di beni pubblici sottoutilizzati o dismessi (art. 6 lettera f del DDL).
Tutto bene dunque? Più o meno. Perché “trasferimento” deve fare rima con “disintermediazione”, ovvero con un diverso sistema di assegnazione e gestione degli asset. Trasferirli “nudi e crudi” può creare infatti più problemi che opportunità. Questi asset sono a volte tossici come quelli finanziari: incorporano, ad esempio, vincoli rispetto alla destinazione d’uso e ai parametri strutturali, per non parlare dei problemi di messa a norma. Basti pensare che qualche tempo fa un assistente tecnico all’assessorato all’urbanistica del comune di Roma proponeva, tra il serio e il faceto, di “abolire la 626”, ovvero la norma che più che tutelare burocratizza la sicurezza degli edifici, stroncando sul nascere le migliori intenzioni di innovatori sociali alle prese con processi di rigenerazione. A meno che questi ultimi non decidano di procedere border line, sfruttando l’inefficienza dei controlli della PA. Altro tema annoso riguarda i contratti d’uso dei community asset come, suo malgrado, dimostra la vicenda del teatro Valle. Senza riconoscimento di diritti di proprietà è semplicemente velleitario parlare di “beni comuni” e quindi è necessario individuare forme nuove di concessione e di governance che attribuiscano risorse per tempi congrui (qui si misura la “pazienza” dell’investitore), ma incorporino anche precise responsabilità in capo ai beneficiari (da misurare secondo una logica di autentico “impatto sociale”).
Quindi tutti fermi in attesa di un contesto normativo più favorevole? Dell’approvazione di sblocca Italia? Della riforma del terzo settore? Dell’adozione da parte di altri comuni dell’ormai famoso regolamento del comune di Bologna sui beni comuni? O di politiche ancora più spinte come l’asset transfer inglese? La miglior lobby in questo momento è far valere una massa critica di progettualità variegate che indichino la strada e che soprattutto dimostrino la capacità di disintermediare tipica del terzo settore. Sono queste organizzazioni infatti che storicamente hanno dimostrato capacità di innovazione “disruptive”, proponendo innovazioni di prodotto e nuovi modelli di servizio a partire dalla rigenerazione dei luoghi. La mappatura dei beni abbandonati assegnati e in corso di assegnazione a iniziative di economie sociale nel comune di Milano è una prima esperienza a cui ispirarsi.
Basaglia docet si potrebbe dire a proposito della vocazione rigenerativa del nonprofit, ma non bisogna crogiolarsi nel mito delle origini. Anche perché nel frattempo molte cose sono cambiate e una fra tutte: le comunità. Non più tessuti naturali di relazioni su cui poggiare iniziative legittimate fin dall’origine come di “interesse generale”, ma coalizioni temporanee di attori che co-operano a misura di obiettivo, coordinandosi localmente e intercettando risorse su scala meso e macro. Attivare economie esterne (una su tutte: il turismo culturale) aiuta sia sul versante della sostenibilità dell’iniziativa che dell’accelerazione del processo di rigenerazione. Testare con progetti sperimentali la nuova funzione d’uso dell’immobile pone a tema la questione dell’efficacia e rafforza la dimensione d’impatto.
Una community di progettualità della rigenerazione. Questo forse manca per dare le giuste gambe a un percorso di policy making che altrimenti rischia di premiare solo poche pratiche eccellenti. O all’opposto di generare, al posto di nuove ibridazioni tra componenti pubbliche private e nonprofit, forme di colonizzazione che ai danni ambientali sommerebbero anche quelli sul fronte della socialità.
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