Le soft skills che tutti cercano (e pochi educano)

cooperare . imprenditorialità

I dati sull’impatto disrupting dell’innovazione tecnologica sul mercato del lavoro assomigliano ai bollettini di una guerra destinata a mietere sempre più vittime. Intere categorie professionali, anche quelle che sembravano più al riparo dalla digitalizzazione e dalla robotica di nuova generazione, sembrano destinate a scomparire, e pure nel breve periodo. Non solo nell’ambito della produzione manifatturiera – da sempre terreno di conquista per le innovazioni tecnologiche – ma in misura crescente nell’economia dei servizi, anche in comparti caratterizzati da un basso tasso di standardizzazione delle prestazioni e da un elevato livello di competenza specialistica (ad esempio le professioni legate all’accounting e al controllo di gestione).

Questi stessi dati riportano anche i possibili vincitori di questa “race against the machine”, come si intitola il libro di  Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee guru dell’innovazione tecnologica e delle sue ricadute sui modelli d’impresa e di organizzazione del lavoro. In cima alla classifica, tra le professioni che non solo non saranno eliminate o ridimensionate, ma che addirittura saranno rafforzate dalla rivoluzione tecnologica in atto, abbondano le ormai mitiche soft skills.

Un bel origami de La Stampa dedicato al modello industria 4.0 restituisce molto bene l’idea, anche considerando che si tratta di oggetti “hard”: la produzione del futuro sarà gestita da sensori, robot, stampanti 3d e governata da competenze di problem solving, creatività, intelligenza emotiva, pensiero critico, ecc. Il tutto per sfornare beni (ma si potrebbe generalizzare ai servizi) caratterizzati da un elevato livello di personalizzazione rispetto alla domanda e con contenuti tecnologici capaci di interagire – interferire? – in modo intelligente e proattivo con gli schemi naturali di interazione personale e di relazione organizzativa.

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Caccia quindi a queste meta competenze, il sacro graal della gestione risorse umane. Non a caso nel gergo HRM tutto questo cade sotto il cappello del “talent management” e forse rappresenta anche la via per rigenerare una funzione che negli ultimi anni ha perso in capacità strategica a scapito di azioni burocratiche come la costruzione di organigrammi sempre più dettagliati e per questo sempre più inadatti a cogliere il carattere fluido di processi produttivi che attraversano i confini organizzativi. Oppure a cesellare mansionari che definiscono, spesso invano, micro task, ma a cui sfugge il carattere essenziale del “saper fare”. La crescita dell’incertezza e della turbolenza sia interna che, soprattutto, dell’ambiente esterno non ha fatto altro che riportare al centro i meccanismi di base che fanno funzionare la produzione e che, soprattutto, ne incrementano l’impatto a livello economico, ma anche ambientale e sociale. La dottrina dello shared value ha, da questo punto di vista, contribuito a disassare modelli di gestione organizzativa e del capitale umano orientati esclusivamente a produrre valore da concentrare in poche mani (shareholders) e in ambiti a più elevata capacità estrattiva (core-business). Ma a fronte di una domanda sempre più frastagliata nelle esigenze da soddisfare e sempre più attenta a incamerare un valore multidimensionale, anche la produzione industriale e manifatturiera è costretta a ripensarsi.

“Customization means relationship” sintetizzava Stefano Micelli al recente #RenaFestival, restituendo in modo efficace l’impatto di competenze relazionali che rendono i prodotti stessi beni di relazione, spesso co-costruiti, incrementandone qualità e competitività.

Il problema, o forse il merito, delle soft skills è che non si fanno catturare facilmente soprattutto se si tratta di modelli organizzativi e di governance caratterizzati dalla prevalenza di elementi standardizzati e formali che lasciano cioè poco spazio a contesti di natura dialogica. Un tema, quest’ultimo, che interroga persino i dispositivi tecnologici e le loro interfacce, la cui “intelligenza” si misura sempre più guardando alla capacità di interazione con utilizzatori che, in molti casi, non solo solo operatori / produttori, ma anche utilizzatori / consumatori del bene che hanno contribuito a co-produrre.

Il nonprofit e in particolare l’impresa sociale sono, anche qui, al centro dell’attenzione. E’ infatti un ambito che produce beni e servizi dove le soft skills rappresentano una componente strutturale e costitutiva e non semplicemente da introdurre o rafforzare per fare “upgrade” della produzione ordinaria. D’altro canto è piuttosto evidente che, fino ad oggi, questo settore in teoria così ricco delle risorse che faranno il lavoro del futuro, non è così ricercato dagli attori dell’economia mainstream. Anzi, si assiste a un percorso opposto: trasferimento di strumenti, pratiche e approcci standard al management della produzione e delle risorse umane dal for profit al campo sociale.

Qualcuno vede in questo passaggio, ormai praticato in modo sistematico e da un tempo medio-lungo, il pericolo di una colonizzazione in senso “manageriale” del nonprofit. Ma forse, osservando più attentamente, si nota il potenziale di una vera e propria cross-fertilization sulle soft skills capace di generare apprendimento reciproco.

Qualche esempio.

  • Molte delle componenti che caratterizzano queste competenze maturano non come talento individuale, ma attraverso un’azione collettiva che si alimenta attraverso pratiche di natura cooperativa dove si scambiano conoscenze tacite e non codificate; le equipe, squadre, cantieri di organizzazioni nonprofit che producono beni di interesse collettivo hanno molto da insegnare da questo punto di vista.
  • Le soft skill, sappiamo  bene, non si trasferiscono nelle aule formative e forse neanche nei contesti di formazione informale a ridosso dei processi di produzione, secondo i classici canoni del “life long learning”; si tratta piuttosto di educarle, cioè di riconoscerle e valorizzarle come capabilities, cioè risorse relazionali di cui una persona dispone congiunte con le sue capacità di fruirne e quindi di impiegarle operativamente. Intorno a queste si costruisce l’organizzazione del lavoro per tutta l’impresa e non solo adattando alcune “postazioni speciali”. I percorsi di inclusione sociale che sostanziano l’operato di molte imprese non profit sul versante lavorativo, educativo, terapeutico sono emblematiche in tal senso, perché dimostrano che è possibile dare spazio in maniera consapevole e strutturata a talenti, anche residui o laterali, senza per questo compromettere la performance economica, anzi, in molti casi, incrementandola soprattutto all’interno di economie coesive.
  • Infine queste competenze si remunerano scambiando autonomia e responsabilità attraverso la leva dell’equità in senso redistributivo – considerando sia risorse economiche che in kind – ma anche procedurale, ovvero di partecipazione a processi decisionali e di gestione strategica. Il carattere multi stakeholder di molti attori nonprofit dimostra che si può fare, a patto di adottare nuovi schemi gestionali, non solo a livello di produzione, ma anche di governo dell’organizzazione.
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4 Commenti

  1. Alessssandra ha detto:

    Articolo innovativo e dritto al punto (ci avete abituato trooooppo bene). Mi permetterei di suggerire una ulteriore dimensione di riflessione sulla remunerazione “scambiando autonomia e responsabilità (…) ma anche procedurale, ovvero di partecipazione a processi decisionali e di gestione strategica.” in particolare per le donne. Forse lavoratrici e datrici/tori di lavoro devono cominciare a coniugare la richiesta di maggiore flessibilità di orari e spazi con questo nuovo paradigma e non con “ok vuoi il part time ti troviamo un task ripetitivo e non troppo importante così non crei nessuna disruption” oppure “non faccio carriera perchè preferisco il part time”). Ma se qualcuno queste soft skill LE HA, forse sa partecipare a processi decisionali e di gestione strategica anche con orari e sedi flessibili… forse anche meglio dell’onnipresente senza soft skill ….in fondo si pagano consulenti di “strategia” con orari e sedi flessibili. Perchè non proporre in primis questi interessanti progetti ai lavoratori interni con soft skill indipendentemente dalle loro scelte di orario?

  2. Paolo Autunno ha detto:

    Occorre. Delimitare un territorio operativo.

  3. Anna Maria Cardi ha detto:

    Una riflessione che tutte le scuole in procinto di realizzare i percorsi in Alternanza Scuola-Lavoro dovrebbero avviare!

  4. Benedetta Bertellini ha detto:

    Mi piace l’idea dello scambio tra soft skills attuate e autonomia/responsabilità restituita. Sentendo i ragazzi che nelle ultime manifestazioni si opponevano alle esperienze di alternanza Scuola-Lavoro, penso che davvero ci sia un equivoco quando pensano che il problema sia il contenuto delle mansioni e non il valore dell’autonomia e della responsabilità che si impara dalle attività semplici. “Fare una fotocopia” sembra banale e stupido in sé, ma sapere a chi serve, a chi è diretta, che cosa contiene, ecc. è un’altra cosa.

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