I tempi ibridi di Hub Rovereto

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@Editormanque

Adesso ha un nuovo nome e soprattutto un nuovo spazio, ma per me Impact Hub Trento rimane quello della prima sede di Rovereto aperta esattamente cinque anni fa. E’ (anche) colpa loro se viviamo in tempi ibridi perché Dalia, Jari, Paolo (e altri) hanno reso evidente la possibilità di costruire organizzazioni come traiettorie che attraversano, ricombinandoli, i fattori che producono valore economico e sociale. Oltre pubblico e privato, oltre profit e nonprofit, dimostrando che tutto questo è sostenibile, anche in senso stretto. Il fatto che dopo cinque anni siano ancora qui e, mi sembra, pure in buona salute è un risultato tutt’altro che secondario.

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Ma come hanno fatto? Le storie di chi ha contribuito a questa impresa raccontano molto, ma si può provare anche a identificare i meccanismi sottostanti di funzionamento. Del resto loro sono parte di una rete globale che fa dell’impatto attraverso la scalabilità un elemento portante, per cui proviamo ad andare oltre la narrazione.

Un primo elemento riguarda la ridefinzione dello spazio fisico come luogo di relazioni. Un passaggio che potrebbe essere banalizzato, riducendolo a una mera questione di fabbisogno di spazi attrezzati per il lavoro  (e/o il cazzeggio), ma in realtà l’obiettivo è di alimentare un flusso di scambi (non solo di mercato e non solo formali) attraverso cui generare opportunità (d’impresa) e senso (fare cose in modo diverso per cambiare). In questo consiste il prezioso lavoro di hosting e a questo sono (o dovrebbero essere) funzionali le architetture interne.

Un secondo meccanismo riguarda le economie “di luogo” generate da Impact Hub. A contare, in molti casi, non sono i core-business, ma le esternalità, cioè le economie che scaturiscono, anche in modo inaspettato, da iniziative diverse. E’ vero che queste esternalità non sono pianificabili, ma comunque esistono e sono rilevanti per la sostenibilità dell’iniziativa e dunque servono modelli gestionali che le abilitino e le valorizzino.

Infine si può evidenziare il sistema che regola la fruizione della struttura cercando di non discriminare l’accesso (tariffe diverficate su base spazio / temporale), ma anche di non sovrasfruttare le risorse disponibili in termini di spazi fisici (rischio di intasamento) e di qualità della community (rischio di opportunismo).

Informalità che alimenta la cooperazione, economie basate su spillover, governance inclusiva e modulata sull’utenza. Visto da vicino (e nel tempo) Impact Hub assomiglia molto a un bene comune. Ma forse è meglio non esagerare. Un po’ perché da beni e servizi definiti come commons rischiamo di essere travolti, magari per poi scoprire che, in molti, casi si tratta solo di operazioni di mera “etichettatura”. Un po’ perché, se fosse davvero così, bisognerebbe assumerne le conseguenze sia a livello organizzativo che di policy making. Passaggi rilevanti e impegnativi, a maggior ragione in una fase in cui emergono i limiti dei business model dell’incubazione tradizionale.

Pensiamoci, però da domani… Oggi c’è un compleanno da festeggiare!

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